Cinque ore nel non-luogo, lunghe. Mal di testa che batte e ribatte tra nuca e tempie per poi rimbalzare ossessivo nel bulbo oculare. Stronzissimo mal di testa. E le cinque ore che finiscono alle due e vai a casa, MA, per la congiunzione astrale lo sfavorevole allineamento - oggi proprio oggi - dei pianeti, e ora c'è da liberare quel casino del tuo garage, che vengono a portare via cose e lasciarne altre, quegli omini. Eccomi. Come un supereroe sgarruffato estraggo la bustina dell’okitask, che lo so che fa male allo stomaco ma la mia testa dice: non credere a tutto quello che ti dicono, fallo e basta. Così butto tutto sotto lingua (che sia più efficace?) e guardo l’ora per verificare che sia davvero effetto rapido. Gli omini furgonati sono più veloci del mio ketoprofene a rapido assorbimento e io scivolo verso lo Stige, là sotto. Un momento di sconforto. Comprendere in un nanosecondo il motivo per cui quella basculante rimane sempre chiusa, e domandarsi perché, perché, perché? davanti a scatole enormi di cui ignoro il contenuto e che giacciono qui, silenti e pesanti, dall'ultimo trasloco del 2008. Le risposte giungono e hanno forme alquanto discutibili e sconcertanti di certe paia di scarpe nascoste come scheletri in un armadio da ristrutturare e privo di anta. Sono spietati quegli scheletri che ghignano, i movimenti si fanno sempre più svelti e scaltri: via via tutto, che non rimanga traccia di quel torbido passato fuori-moda (peccato che i sacchi per la racconta differenziata “secco” siano impietosamente trasparenti)

Venerdì sera, ritardo, pioggia, parcheggio occupato, un ombrello striminzito in mano e spalle dritte e strette a sostenere lo spettacolo.

Ho pure sgomitato per esserci, echeccavolo, ne vale la pena. Sembra una cena come altre, venerdì sera in centro, il turno terminato da poco – è già tardi - di corsa a casa per l’ultima incipriata al naso. Se sembro eterea e rarefatta, sì, così va bene. Inizio a farneticare a voce alta, in bagno, da sola, e la cosa inizia a preoccuparmi. Oltretutto, penso: tocca pure prendere la macchina, nemmeno potrò affogare i pensieri e stordirli nell'alcol, sia mai. Ho sgomitato per esserci stasera, sorridi suvvia, ne varrà la pena.

Non so molto del programma della serata, qualcuno me l’ha venduto come un evento esclusivo e ho come l’impressione di dover mostrare gratitudine e notevole entusiasmo. Ma poi mi distraggo un secondo e d’istinto rispondo che non posso fare tardi senza aggiungere esplicite motivazioni (urge aggiornamento database).

Si va in scena.

Ciao amici, baci e abbracci, smack.

Si sa che in queste occasioni finto informali bisogna essere brillanti, fichi, con la battuta pronta al momento giusto, il bicchiere in mano e un bel sorriso spiaccicato sulla faccia. Sempre. Che livellare le labbra equivale a beccarsi una nomination e poi si rischia l’eliminazione (o peggio, autoesclusione). Devo divertirmi e soprattutto, cosa più importante, darlo a vedere con il dovuto rispetto. Insomma, è pur sempre un privilegio, no? Ebbene, se mi impegno sono piuttosto brava: basta un poco di preparazione psicofisica, due passate di mascara, e un rossetto a incorniciare un bel sorriso di circostanza.

Mi raccomando, tutti vestiti bene che c’è da far bella figura. Qui mica si scherza, è prevista selezione all'ingresso. Girati un po’ e fatti vedere, che cos'è che indossi? Tacco dodici di vernice. Scala a chiocciola insidiosa (pare la discesa agli inferi). Prova superata.

M’assale oggi l’originaria sensazione di spossatezza.

Che tutto va per il verso sbagliato e bla bla bla, io alzo le mani, è battaglia persa, non ho alcuna intenzione di oppormi, come se qualcosa di estraneo alla mia vita, vita vera, mi tenesse per l’orlo del vestito e mi trascinasse controcorrente, contro natura, lontano dal centro vitale.

Pare un grido sordo, un lamento che giunge da troppo lontano per poterne distinguere le onde, ma tutto inizia inesorabilmente a rallentare, le orecchie lo incanalano, si comincia a distinguere, comunque c’è quella cosa e urta contro il timpano e precipita giù per la trachea – colpo di tosse – la nausea mi travolge. Che abbia finito il suo tragitto, stronza monetina impazzita? Vorrei vomitare questa sensazione quasi fosse un bicchiere di troppo, invece rimango immersa nei postumi di una sbornia antica che mi abita da sempre.

L’eco metallico senza più movimento si allontana dai miei pensieri, priva di controllo riprendo contatto con mille realtà.

Ringrazio questo silenzio che mi trattiene incollata a un tavolo, tra tasti che saltellano fuori e dita che si affannano nel tentativo di ricacciarli al loro posto. Ignoro le piccole lettere che si stagliano sulla fredda opalescenza (solo una fugace sbirciata, giuro) e prego affinché almeno l’emicrania si fermi, ma loro no, che danzino incessanti a darmi l’agognato sollievo. Un’altra sbirciata, con la fronte corrugata e gli occhi stropicciati a fessura, un’altra sbirciata a vuoto,

non c’è trucco e non c’è inganno!

E neppure il senso c’è, da trovare in ogni cosa come fosse una sequenza da decifrare, come se ci fosse sempre un premio da guadagnare, alla fine.