a singhiozzo (p. 1)

M’assale oggi l’originaria sensazione di spossatezza.

Che tutto va per il verso sbagliato e bla bla bla, io alzo le mani, è battaglia persa, non ho alcuna intenzione di oppormi, come se qualcosa di estraneo alla mia vita, vita vera, mi tenesse per l’orlo del vestito e mi trascinasse controcorrente, contro natura, lontano dal centro vitale.

Pare un grido sordo, un lamento che giunge da troppo lontano per poterne distinguere le onde, ma tutto inizia inesorabilmente a rallentare, le orecchie lo incanalano, si comincia a distinguere, comunque c’è quella cosa e urta contro il timpano e precipita giù per la trachea – colpo di tosse – la nausea mi travolge. Che abbia finito il suo tragitto, stronza monetina impazzita? Vorrei vomitare questa sensazione quasi fosse un bicchiere di troppo, invece rimango immersa nei postumi di una sbornia antica che mi abita da sempre.

L’eco metallico senza più movimento si allontana dai miei pensieri, priva di controllo riprendo contatto con mille realtà.

Ringrazio questo silenzio che mi trattiene incollata a un tavolo, tra tasti che saltellano fuori e dita che si affannano nel tentativo di ricacciarli al loro posto. Ignoro le piccole lettere che si stagliano sulla fredda opalescenza (solo una fugace sbirciata, giuro) e prego affinché almeno l’emicrania si fermi, ma loro no, che danzino incessanti a darmi l’agognato sollievo. Un’altra sbirciata, con la fronte corrugata e gli occhi stropicciati a fessura, un’altra sbirciata a vuoto,

non c’è trucco e non c’è inganno!

E neppure il senso c’è, da trovare in ogni cosa come fosse una sequenza da decifrare, come se ci fosse sempre un premio da guadagnare, alla fine.

Ma qui non c’è più trucco e non c’è più inganno, che complice con pane e zucchero ho dispensato e azzannato nelle notti delle commedie a colori, e ancora nascosto nelle crepe di una bella casa in rovina, al risveglio. Per quasi tre vite intere ho continuato a dormire, di sonni muti senza didascalie, e quel prestigiatore che mi trovava sempre in sogno, se ne stava lì, accanto a me, senza dire niente. Lo sentivo respirare e sussurrare, di quei sospiri invisibili a cui vorresti appiccicare tutte le tue mezze verità per poi ripiegarle nella tasca della giacca, poco importa che si facciano mappa del tesoro o blasfemo santino a cui votarsi.

L’emicrania persiste.

E io sorrido, che ho smarrito la ricevuta della lavanderia.

Che ne dici se ci fermassimo un istante fuori da questo spigolo freddo e tornassimo a quel pomeriggio di maggio? Scivolo via per prima se vuoi, chissà se toccherò di nuovo terra. C’era così tanto rumore in mezzo alle nostre labbra che si mangiavano. Da togliere il fiato (e tediare il fato).

Perché non parli più e te ne stai immutato a fissare il vuoto, dietro l’angolo laggiù in fondo? Rallento il passo ma solo l’ombra s’allunga, e corre e corre più vicina e mi sfiora col suo cilindro nero e ride forte, fingendosi te.

Da questa parte, forza! che siamo in ritardo.

No, ti prego non chiedere dove, che davvero non lo ricordo (temo di non averlo mai saputo).

Sono nata così, goffo bianconiglio convinto di essere perennemente in ritardo.

Io non ho imparato la parte, qualcuno deve aver suggerito male.