23 Set il sotto-sopra
Preambolo.
per anni è rimasto lì, così. tutto sotto controllo – o almeno, questo era ciò che il pensiero suggeriva – tutto lassù, in quel personalissimo spazio. vicino ma separato. capiente. paziente. tanto animato quanto insidioso. l’assoluto(dis)funzionale. eterno rimando.
poi ecco. un giorno d’improvviso alzi lo sguardo verso la botola e lo sai, lo sai che è giunto il tempo. e lo fai. affrontare tutto quel passato accatastato, compresso e compromesso. da troppo tempo volutamente ignorato, come si evita il mostro rinchiuso nello sgabuzzino più buio della casa. che resta lì, da tempo immemore. silente. la stanza angusta senza finestre. puoi passarci vicino, finchè la porta resta chiusa non fa nemmeno paura. però poi arriva il giorno del trasloco – da qui a lì – per fare spazio alle cose a venire. il sottosopra trabocca e ti travolge.
sali. protesa verso un orizzonte non ben definito – e come potresti ri-conoscerlo? – qui, solo le ombre si rivelano. le frasi, i segreti lasciati a mezz’aria fluttuano. si spostano rapidi, come impazziti, risucchiati in un vortice. lo spazio è pregno di vita passata, palpita. vita che s’era smarrita. nascosta così (trattieni il fiato) proprio per restare immobile. affinché il movimento non la trascinasse altrove lasciando questi spazi vuoti, senza più riferimenti.
Qui, ora.
Sembra un viaggio della speranza, inquieto e vano. Provo a scrivere qualcosa ma stento, come se avessi perso le parole. capita sempre più spesso. non lo so quando è iniziato. le tenevo ben strette, un tempo. legate a doppio filo l’una all’altra. cucite insieme, di tutto punto, facendo attenzione a mantenere il senso. logico, della misura. che segnavo leggera leggera, a matita, per non perdere il filo del discorso. quello andato, smarrito o forse sospeso, impigliato in qualche spigolo del soppalco.
ci ho trovato dei pezzi ma ho dovuto faticare. lo faccio sempre. complicare le cose. moltiplicare le pose. perdo tempo ma poi lo ritrovo. alla fine torna, torna sempre quel tempo che chiede conto. a pezzi, sparsi e riapparsi da un tempo lontano – stento a crederci – ma stanno lì. quelle parole scritte con l’inchiostro blu. profondo come l’inconscio. che affiora e sfiora la mia fronte. poi la colpisce. affonda. conta, mi dice. quante volte, figliola? non lo so, non lo so-no più. quella cosa. davvero. dal vero pare un luogo alieno, eppure quelle parole – eccole, sono lì. a ricordarmi quello che è stato, quello che è andato e pure quello che si è portato. via. tempo fa. un mattino d’estate. con l’oro in bocca. tutto quanto. il mio. pregno d’amore. che bramava per farsi romanzo. senza, tramava.
io, invece, tremo. con le mani colme di parole, di nomi che palpitano e sfuggono, scivolosi e viscidi. li guardo allungarsi a fatica come se volessero di nuovo prendere corpo. vivi, di nuovo. solo un momento, vivi. per poi cedere, precipitare pesanti e infrangersi. attendo invano il segnale. liberi tutti. ma no, niente. solo cadono. da capo a piedi. nessun rumore, nessun dolore. li osservo. visti da quassù non fanno più paura. sono (di)sciolti, senza più punti di sutura a trattenere ferite, conservate in una scatola come fossero piccole gioie antiche da sfoggiare con orgoglio nei giorni di festa. folle e funesta. per mettere in scena l’ultimo atto, l’ennesimo immutato sempre uguale a se stesso. in ogni stanza, in ogni città, in ogni dannata segreta speranza sceneggiata.
è un posto che risucchia, il sottosopra. come un passato a pezzi che spinge per trattenerti, ancora e ancora. dove non vuoi. dove non sei più.
senza deformazioni, ho carta bianca. guardo l’orologio per leggere la verità. e scendo a ri-scriverla.
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