La scatola nera

 E’ con un bacio che mi risveglia, pesante e fragile. Io dormo ormai da mille anni, tra paure e gioiose allucinazioni vestite di miraggi, e ancora non apro gli occhi.

Non so dove mi trovo oggi e neppure chi sono.
Apri la finestra, fa’ entrare poca luce, e io mi lamento.
Bella addormentata intorpidita, in questo involucro sintetico che mi somiglia in modo impressionante, vesto sorrisi nuovi a camuffare vecchie storie già sentite.
Da uno sbadiglio distratto si aprono delle sottili lacerazioni, così sottili che non si vedono, ma lasciano scivolare parole e immagini a lungo celate in uno sguardo impenetrabile.

Ricordi? giravi intorno a me come un fuso paziente, avvolgevi fili e parole rotonde, avviluppati in un moto perpetuo, noi, dipendenti l’uno dall’altra. Riflessa nel tuo sguardo vedevo solo la bellezza di una poesia
ossessiva e ammaliatrice farsi danza,
continua incessante ripetitiva
compulsiva fino a diventare vertigine.
In preda a una sorta di consapevole allucinazione un giorno hai detto vola(o almeno così mi era parso). Senza sapere dove andare ho aperto le braccia e mi sono lanciata in cielo (bella la sensazione del vento addosso) ho accumulato parole e fatti e sensazioni. Alcune le ho conservate come reliquie velenose da ostentare, di tanto in tanto, quando la pelle sembra abbastanza resistente e allora incidi quasi distrattamente, con quel fuso. Quel tanto che basta per far penetrare di nuovo qualche goccia dell’agognato veleno. Solo un poco, sentirlo intossicare appena, sentire ancora le vertigini e poi la nausea. Il panico preannunciato da gustare quasi immediatamente. A scoprirmi avida. (Lo faccio da così tanto ormai che è diventato un automatismo) Fiera della mia tossicodipendenza, abbandono ogni responsabilità e mi lascio condurre verso destinazioni che non conosco. Non mi interessa scoprirlo, preferisco stordirmi come se fosse vita e restare ferma qui. In attesa. C’è sempre qualcuno disposto a indicare la strada, anche quando non sa di che diavolo stai parlando e non ha idea di dove tu voglia andare, ma tanto da qualche parte ti porterà, tutt’al più ci sarà qualcun altro poi, a dare nuove indicazioni.

 

Un tempo li mettevo in fila, ora non più, sono troppi e perdo il conto. Un tempo credevo che prima o poi avrei smesso, che sarebbe avvenuto naturalmente, quasi senza accorgermene, e invece passano gli anni, e io divento sempre più meticolosa e ossessiva nel registrare e conservare. Ci vuole metodo anche nell’infliggersi piccole torture. Perché tutto dev’essere organizzato, ordinato, avere un senso logico: dettagli, ricordi, riflessi, ombre e proiezioni, tutto alla ricerca di un modello perduto che tento faticosamente di ricostruire: un qualche cosa che non posso ricordare ma fatico a dimenticare.

Ora sono tutte quelle piccole storie che si portano via un pezzo di me. Mi sento come disgregata, nascosta e persa tra le parole di altre persone, tra i ricordi, i sorrisi, le voglie, le paure, le illusioni, le promesse. C’è un pezzo di me in un verso che lascia sempre e per sempre senza fiato. Un pezzo di me in una scatola di Disegual, colorata e piena di parole polverose. Un pezzo di me sui contorni di un corpo nudo perfetto e reciso, di cui non conosco le età ma soltanto il nome. Un pezzo di me in un pomeriggio in Liguria, con un anello che luccica e mi acceca. Un pezzo di me tra le righe scritte con una penna biro, e i comandamenti che celebro a ogni compleanno. Un pezzo di me nell’eco di un istinto animale che s’ode sempre più lontano. Un pezzo di me in angolo che profuma di buono misto a antiche menzogne, bellissime e quasi quasi rimpiante. Sparsi e appiccicati ovunque.
Sono fili di seta brillante, ragnatele vischiose che non si spezzano mai. Le sposto quando sento che sto per inciampare, barcollo e poi mi aggiusto.

Interferenze visuali, colla e punti di sutura.

E’ reale, tutto questo?

Vorrei decifrare i dati di questa scatola nera che mi trascino appresso, analizzare le iperbole e lasciare che l’immaginazione si assottigli, si depositi come polvere pesante sul fondo.

Davvero voglio sapere?

E’ dappertutto, la realtà prevale, sono sotto assedio.
Una realtà così meravigliosa che non riesco a viverla affatto.
Mi invade e mi annienta.
Ancora ne faccio poesia, di nuovo, che non ci sono più prìncipi né baci, né ali di seta.
Mi sento pesante come un macigno, sono pesante perché sono un macigno che fagocita e si trascina in attesa della decodifica.

Ce n’è da decifrare, scatola a doppio fondo: doppia vita doppia realtà doppio inganno doppio dolore doppia felicità.

Così, due volte precipita e affonda.

May-day! May-day!

Avrei voluto precipitasse in un maledetto abisso senza fine, irrecuperabile,
quell’abisso di fantasmi e significati
l’abisso degli amori perfetti.

Non si può volare con gli occhi spalancati, né precipitare sulle punte con la grazia di una ballerina di prima fila.

non ci sono ali né motore
non è volo a planare
non è aria inspirata,
non cerco più appiglio,
ma aria che scenda e consumi
non riesco più a fingere
Non è ammessa ignoranza
non c’è più alcun segno.
Registra ogni cosa
resiste a ogni cosa.

Ho atteso per anni la rivelazione, lo schianto letale che genera nuova vita. Dall’abisso degli amori perfetti emette infaticabile il segnale.

Apro gli occhi e lascio che nuova luce invada la stanza.
Ammaccata e imperfetta, trovo salvezza nelle mie stesse lacerazioni.

Sono io quella scatola nera.