Gocce

Me lo ricordo, era settembre. Sì, settembre come quella canzone di Cristina Donà, e anche tu me lo dicevi che era tempo di imparare a guardare la bellezza e la verità ripulire il pensiero e dominare il fuoco e rinunciare al veleno e ascoltare. Ho guardato e ascoltato e ripulito il pensiero. Senza più quella paura di attraversare il dolore, pur nella bellezza stessa (che è dalla bellezza che scaturisce, talvolta)
La Bellezza, sì. E verità, soprattutto.
La verità è che per anni ho coltivato e combattuto quella idea di anima gemella. Quella assoluta, totale. Quella fatale, che solo vive per il naturale compimento. Quella che si fonde e illumina e riflette e squarcia e sprofonda senza paura nelle zone più offuscate, quelle remote dell’anima. Quella sempre e comunque dà vita.
Non ci siamo incastrati, lo so, e questa è un’altra storia.
La verità è che ancora ci credo. Con tutta me stessa. Ancora, nonostante tutto.
No, sul serio: certe convinzioni assolute che fai crescere in grembo poi te le porti ovunque, travaglio senza parto, e alla fine prendono strane forme. Sono in te, ci restano perché sono radicate laggiù in fondo, aggrappate come zecche nel profondo più nero del nero.
Edith Templeton la definiva la scodella d’acqua*.

“Era come se fossi entrata in possesso d una di quelle piccole conchiglie con i fiori giapponesi che vendono per strada. Se la si immerge in una scodella d’acqua, le valve della conchiglia si aprono e i piatti secchi contorti e insignificanti brandelli di carta che contiene, galleggiano fuori e si dispiegano il loro variegato, insospettabile splendore; in Gordon io avevo trovato la scodella d’acqua.”

La mia, di scodella, dev’essersi rovesciata. Forse un incidente, forse ci sono inciampata senza neppure accorgermene, mentre vagavo senza meta in attesa del bagno purificatore, il battesimo nel fiume Giordano che mi riportasse alla vita.

L’acqua dispersa. Sgomento e mani giunte e una coppa vuota che riflette luce dall’esterno. Mi sento persa, Gordon pure s’è perso.
Ecco, scrivo, racconto tutto nell’attesa. Attesa che conta i minuti e i giorni e i mesi e i sospiri sciocchi e sospesi come quelle poche gocce che ancora danzano lungo il bordo. Ecco, piano mi muovo.
Restare immobili in attesa non fa altro che rimandare guarigioni e salvifici incontri. Piccole gocce sospese hanno vacillato ai primi passi. 
Così mentre cammino penso che ci sono persone che sono come gocce.
Gocce che non riesci a trattenere, gonfie come nuvole nere, minacciose, e lo sai che sta per piovere ma sono troppo belle, che incanto, resti con naso all’insù a rimirarle e ti lasci sorprendere e cadono, cadono perché è nella loro natura. Cadono e fanno traboccare il vaso (di Pandora).
E’ troppo, non ce la fai, ti agiti con quella stupida scodella tra le mani cercando di trattenere gocce quanto più possibile. Arranchi, scivoli, di nuovo a terra, con la carne livida e le mani vuote.
Gocce che sembrano lacrime e poi di ricorsa seguono il profilo e si fermano sulla punta del naso rimangono sospese a penzolare per un po’, e aspetti che cadano, oppure rovesci gli occhi al cielo e smetti di tirar sù col naso e spariscono col primo fazzolettino stropicciato che trovi in borsa e te lo infili nella tasca della giacca, così com’è, che i cestini per la strada non li trovi quasi mai.
Qualcuna sembra cadere dal cielo – la senti? – fa cerchi nell’acqua e dilata all’infinito sensazioni e connessioni e non importa se non sai nuotare, solo lasciati andare. Le distanze si annullano, ti sommerge, ti dissolvi in un mare verticale, che cresce verso l’alto.
A volte sono solo un buco nell’acqua.
Inodore e insapore, bianco anestetico che seda la mente, bianco-bianco tutto intorno, ma poi passa, togli la faccia, passa altrove il tuo sguardo inchiodato al fondo della scodella, poi passa tutto. Persino il tuo nome.
Rosse, altre. Di quel mercurio cromo che brucia sulla ferita, rosso che sfoggi quasi fiera, bambina, con le tue ginocchia tutte sbucciate e insisti ancora con le unghie, a grattar via crosticine, aprendo più che puoi i margini di una ferita di cui – chissà come – vuoi ritardarne la guarigione. Sorridi ogni volta, alla vista di quel rosso che ti striscia la pelle.
Gocce che scivolano via, via lungo tubicini di plastica trasparente e danno tempo a quelle tue vane preghiere e a una vita che se va, piano, in penombra.
Soffici si spandono come suoni, melodia di un flauto magico che chiama e accarezza e bagnano le tue labbra, la notte, poi si rapprendono sotto il sole. Entrano in te, sottopelle, presenze fugaci si infiltrano nella tua realtà come le stessi bevendo. Non dissetano, ristorano.

S’infilano nelle crepe d’arsura e danno vita a parti sempre nuove di te. Lievi e insistenti, quasi non te ne accorgi che scavano e scavano e spaccano quel muro dietro al quale ti sei ostinata a giocare a nascondino. E sei spacciata e sei salva ora, e offri il petto a lame che incidono la carne. E basta piangere, allarga i lembi di uno squarcio che si fa orizzonte. 

E’ un cerchio che (si) chiude, quella scodella.

Mani disgiunge mimano al cielo ninna-nanna-ninna-O. Oh, O – H2O.

Sotto la pioggia germogli che fremono, semi che scoppiano. Un ritornello felice che cambia di continuo e non impari mai.

*Gordon/Edith Templeton – Ed. Neri Pozza