Sessantuno e il fugu (i love the sound of you walking away)

Allungata e scomposta sul divano di casa, Sessantuno avverte un sinistro formicolio alle estremità. Resta immobile, ancora una volta con il volume a zero, e l’attenzione che vaga senza continuità da una parte all’altra del pensiero, quello stupendo e quello così dannatamente fastidioso. Le dita sembrano rispondere, e sul viso una sorta di ghigno compiaciuto. 

Ci siamo – pensa – chissà se funziona.

Sessantuno deve aver ingerito un pezzetto del pericoloso pesce fugu l’altra sera, al giapponese sul corso, quello buono. Con quel gatto in porcellana colorata grasso come un budda che muove la zampa in continuazione, quasi volesse salutare l’intera umanità. O quantomeno quella che si aggira da queste parti. Sessantuno si lascia andare a leggiadri e allettanti pensieri, alza il sopracciglio e sussulta: potrebbe essere un’idea geniale provare quel leggendario pesce o la va o la spacca, o vivi o muori, di cui tanto si parla. Con quel suo aspetto invitante, il sapore così appetitoso e squisito, attraente e mortale. Chissà.

Nel tentativo di capire tutto questo, sali di nuovo al terzo piano: nella stanza dei lucidi inganni la luce scalda appena la notte. Sssssshhhhh: accomodati al banchetto. Da qui puoi persino sentire il profumo del vino che oscilla lento nel cristallo e di nuovo quella pelle disegnata che per un attimo, uno lungo, imprigiona il tuo sguardo. Al signor Acido piacciono i suoi tatuaggi colorati, piacciono le sue spalle, le sue braccia, le sue mani che dispensano cibo, piacere e veleno.

Acido che ancora si offre incensando la stanza con sedicenti doti olistiche, mistiche, rigeneranti e generosamente fertili.

Come per il fugu, così per il signor Acido non è possibile stabilire con esattezza quante tossine siano presenti e quante siano necessarie per il brivido letale: si può vivere e restare perfettamente in salute, oppure è sufficiente una leccata e si cade a terra stecchiti. Sessantuno quella notte ha passato in rassegna tutte e tre le fasi previste, in ordine sparso.

Seguono i fatti noti (ovvero, questi)

Seguono giorni e seguono notti e poi altri giorni. Niente.

Vien da chiedersi se questo signor Acido sia mai realmente esistito, se sia frutto di fantasia o una qualche specie di alterazione chimica. Se lo è chiesto più e più volte anche numero Sessantuno, troppo intenta a dare senso logico agli accadimenti della vita per lasciare veramente al caso il destino. Per l’ennesima volta. Per casa non ci sono i dadi da lanciare, spariti pure loro. Sparito il signor Acido, sparita tutta la poesia ricamata intorno a un pomeriggio bello e inaspettato. Bello e spietato.

Mi senti, signor Acido?

C’è ancora un signor Acido scorrendo la rubrica del telefono (quindi si presume sia reale, ma non necessariamente). Senza troppa convinzione Sessantuno sfiora lo schermo, gioca con i puntini luminosi e disegna sequenze sbagliate che posticipano goffamente Si stropiccia gli occhi con la mano, e si trascina decadenti residui di trucco fin sugli zigomi. La punta del dito vezzosamente annerito tamburella ancora un poco. Di nuovo i Franz Ferdinand, e sia: inevitabile la pressione dell’indice che batte sul tasto dolente. Libero. Il telefono del signor Acido squilla. La voce del signor Acido inaspettata arriva all’auricolare, rotonda e veloce che sembra in rincorsa:

– Ciao esse (s. puntato: per brevità? per affetto? o perché quello il nome rimasto in memoria e non ricorda come prosegue?) aspetta, mi sposto. Non si sente bene, questo cazzo di vento, mi spettina tutto.

Sessantuno che sorride, sorride apertamente, lo sente anche Acido quel sorriso, c’è da scommetterci.

– Dai Acido, non temere, che sei bello comunque, anche scompigliato.

Veramente glielo sta dicendo? Eccoli: stanno parlando di nuovo e di nuovo Sessantuno avverte una sorta di sconsiderato piacere nel sentire quella voce. Sempre così cristallina, allegra, che a sentirla mette un incomprensibile e fastidioso buon umore. Per questo ha inviato la chiamata. Per capire se fosse reale. E Acido che risponde al terzo squillo, quindi sì, è reale, e Sessantuno che sorride, davvero sembra più forte di lei, più forte di tutte quelle stronzissime sovrastrutture razionali e irrazionali che si porta dietro, stordita da quel scellerato piacere. O anche solo dall’idea di quello.

– Esse, ho fretta, che devo prenotare la visita dall’oculista e poi finisco di lucidare le posate.

– Sì, ciao signor Acido.

Non sa che dire Sessantuno. Niente, non era previsto nulla da dire: era solo una piccola verifica. Sessantasei secondi. Tanto è durata l’infusione nella schizofrenica realtà di signor Acido. Poco più di un minuto e il veleno che già si scioglie nelle vene. Così lento e vigliacco che nessuno se ne accorge.

Sessantuno ha la soglia del dolore bassa ma talvolta se ne dimentica e sente un lieve formicolio alle estremità, così si mette alla ricerca immediata di qualcosa che le sciolga il sangue nelle vene, che la porti alla vita, che le faccia sentire, sentire e basta, qualunque cosa sia, qualunque nome abbia.

Sessantuno quella sera prova un’irresistibile appetito, brinda alla salute del signor Acido e si convince che non correrà alcun pericolo.

Attende che le tossine entrino in circolo, che l’unica goccia di veleno superstite le procuri una letale vertigine. Qualsiasi cosa voglia dire. E le serve un finale. L’ennesimo. Così una sera, un’altra di quelle sere in cui si ostina a cercare lontani echi di velenose vertigini nel sangue, sorseggiando bush flower mescolati a qualche non ben precisata sostanza psicotropa, decide di inventarsene uno. Pronto uso. Pronto soccorso. Pronti: via. Così scrive, scrive la scellerata intossicata, scrive in piena notte, con la gola arsa e il battito che accelera ad ogni tasto che pigia sulla tastiera, a ogni parola che compare e diventa reale ai suoi occhi e riprende vita nella sua mente, come un mostro anticamente temuto e così a lungo tenacemente stuzzicato. Fino al risveglio:

Delivery to the following recipient failed permanently. The error that the other server returned was: 550 Invalid Recipient

Sessantuno sbarra gli occhi distende le ciglia e fa scomparire le palpebre fino a che sente, sente gli occhi asciugarsi e la pupilla che si dilata e poi si fa spillo con cui pungere il dorso della mano. Si risveglia. Niente. Non resta niente. Nessuna storia assurda da raccontare. Nessuna breve intervista, dunque. E certo, manco a dirlo, nessun signor Acido.

Si spalanca una porta e poi una finestra affacciata sul desolante liquido blablabla ricoperto di glassa velenosa (ovvero: succhi gastrici). Nausea disturbante, ossì.

Non era un appuntamento vero, quello. Non era nemmeno un’intervista. Né un esperimento. Qualunque cosa (non) fosse, un finale serviva comunque.

Scivolato pure quello laggiù, in fondo – temo – in fondo all’oscuro meandro, culla di miserabili e vergognose macerie, insieme al signor Acido, vomitando l’ultima traccia di pesce fugu, masticato e ingerito (più o meno) accidentalmente qualche mese fa.

Dissolvenza sulla scena poco edificante.

Musica, please (i love the sound of you walking away)