senza-titolo (Francesca Woodman a Milano)

La sala non è gremita, non ancora.  Appese alla parete bianca, allineate perfettamente, pulite e ordinate.  Si susseguono in modo rigoroso,  eleganti sequenze, regolari al limite del prevedibile. Prive di colore. Non hanno bisogno di effetti speciali, appena ci si avvicina lo si nota. Sono pezzetti di carta pieni di parole scritte. Sono pezzetti di carta che rivestono corpi, che rivestono pareti, che rivestono corpi, dissolvendosi l’uno nell’altro  Sono pezzetti di carta. Sono immagini, e sono colme di emozioni che riempiono gli occhi e il cuore. Basta fermarsi e guardare. Ed è bianco lo stupore, ed è nera l’inquietudine di quel corpo adagiato su una sedia qualunque, nudo, sporco, abbandonato e disperatamente vivo. Lo specchio posato in grembo, premuto contro il corpo, le braccia che lo stringono con forza, quasi rabbiose.

Lo sguardo si ferma, è tutto lì, in quello specchio, ora. Lo sguardo si ferma ma non è in grado di andare oltre. Infinita e plastica ambiguità, quella superficie riflette ancora noi stessi. Uno sguardo fugace e distratto cattura una vita. La altera, interpretandola. Mancano pezzi, e lo spettatore si improvvisa esperto (illusionista) e li crea, al momento. Sono lì, ora. Sparsi, a piacimento. A disposizione del pubblico.  Oltre l’immagine, oltre quel momento che si osserva e si interpreta. La solitudine, la paura di scomparire, la vergogna, la fragilità e l’intimo sentire offerti in dono. Immagini che disturbano e inquietano, portano altrove. Non sono verità assolute che si svelano in un solo frammento.  Ci si avvicina, un passo soltanto. Essenziale e cruda, continua la sequenza. Più vicini, con lo sguardo fisso in un quel punto e solo quello, un solo punto a cui sfuggono i contorni, i limiti. È nell’ombra che si nota la presenza. Là dove è più densa, e tutt’attorno diventa sfocato, talmente sfocato che quasi ubriaca. Non si vede. Confonde. Ma quell’ombra torbida fa fermare. Lì, inchiodati davanti a quell’immagine che è sempre meno chiara, pare impotente in quel silenzio che racchiude segreti.

Un passo indietro. I contorni si fanno più nitidi e assume una forma diversa, più complessa, difficile. Richiede un ulteriore sforzo. Hai tempo, hai voglia? Un passo indietro, per vedere meglio e cercare di capire. Perché la superficie in quel punto si fa trasparenza, e ora è possibile seguire con lo sguardo quella progressiva insospettabile mutazione. Era specchio, ora non lo è più.

Sono immagini esposte. Non c’è titolo, non c’è didascalia. Libera interpretazione. Mentre il pubblico continua a scorrere, scuote la testa, sorride, s’inquieta e s’interroga, a volte si sofferma. E’ solo un’immagine. A volte riflette e nasconde. A volte lascia spiragli per vedere oltre. E’ solo una singola immagine, racchiude in sé un significato misterioso e rivela il suo intimo delicato e fragile. Non lo confessa apertamente. Non lo grida. Non reclama. E’ lì, offerta.  E’ lì che invita e guarda, con i suoi occhi carichi di mute emozioni, anche quando si nega, e si cela. Come un pezzetto di carta su cui scrivere parole, come un pezzetto di carta su cui proiettare immagini, come pezzetto di carta dietro il quale confondersi fino a scomparire, come pezzetto di carta per avvolgere un dono che s’offre.

Materiale, fisico, così ovvio quel lembo di carta. Ed ecco, d’improvviso si lacera, squarcia l’ombra. Prima un lembo, poi l’altro. Diventa carne viva.

Assomiglia, ma non è una frase. Assomiglia, ma non è ciò che l’ombra suggeriva. Assomiglia, ma non è ciò che i contorni delineavano. Non quella figura ma il pensiero di essa. Non la creatrice, ma la creatura.

Oltre le parole, oltre le ombre, oltre gli specchi,

altro.

(Anche senza titolo, anche senza didascalia)

(Francesca Woodman a Milano, Palazzo della Ragione. 2010)