La felicità non è innocente.

pensieri sparsi su Il museo dell’innocenza:
#24. Il fidanzamento.

 

Un giorno di qualche tempo fa, Simone se ne esce con questa storia dell’Instagram sui libri da leggere in metro: romanzi belli, leggeri e agili per la metro, appunto. Com’è, invece, che io mi ritovo tra le mani questo possente volume di 587 (cinquecentoottantasette, lunghissimo pure da scrivere) pagine? Qualcosa di seducente e irresistibile mi spinge e, di certo, non ha nulla a che fare col senso pratico. Quindi eccomi – linea gialla, direzione San Donato – a pagina 129 de Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk.

Come spesso accade, questo è stato un acquisto fortuito, oltre che fortunato. Pescato per caso – ma neanche troppo – sul ripiano più basso e nascosto di un mercatino dell’usato. Un sabato pomeriggio, a Milano, vicino alla via Gluck. Quello me lo ricordo bene, perchè in macchina Teresa diceva di non conoscerla la storia della via Gluck, così abbiamo ascoltato a tutto volume il pezzo di Celentano – che non mi è mai piaciuto granchè, a dire il vero.
Pamuk invece è tutta un’altra storia, e qualcuno – a suo modo – mi aveva avvertito. Solo che nelle prime pagine non me ne rendo conto. Non ancora. Alcune cose richiedono tempo. Alcune storie si rivelano poco per volta, prendono forma quando dispieghi piano i pezzi e lisci gli angoli e le pieghe. L’ossessione, la furia erotica e sentimentale, la follia vorticosa. Riesci a vederle, ora?

Così succede: ci sprofondo dentro. Me ne accorgo che la festa – quella nelle sontuose sale dell’Hilton di Istanbul – è già iniziata, a pagina 129. Il giorno del fidanzamento tra Kemal e Sibel. Impeccabili in superficie, con quella ostentata felicità di chi ottiene dalla vita esattamente ciò che ha sognato. Programmato, da sempre

La messa in scena di una sceneggiatura già scritta, letta e riletta più volte per trovare il ritmo giusto, la luce giusta, il lato migliore da offrire al pubblico. Nemmeno lo schiaffo delle mani alla ripresa del ciak ti fa destare. Tutti che esortano a respirare, e andare avanti con naturalezza, come se tutto questo fosse reale. Vero per davvero.
A forza di ripetere la scena, quella diventa l’unica realtà che conosci. Che ti ostini a voler conoscere. É il tuo mondo, è perfetto. Un ballo indimenticabile.
Sono felice. Sì, Kemal, dici di essere felice. Quella felicità che cresce lentamente dentro, come una gigantesca onda che si infrange sulla spiaggia. Fino a pagina 129, tutto sta andando come desideravi. Come suggerisce amabilmente il bicchiere di raki consolatorio da cui non ti separi quasi mai. Che accompagna il tuo sguardo ebbro alla ricerca di Fusun, tra tutta quella gente. Fusun e la sua bellezza luccicante che rimane impressa nella mente. Lo sanno tutti. Fusun, bagliore che irradia felicità e illumina giorni, notti, il futuro intero. Kemal se ne bea come un adolescente compiaciuto della conquista e, con la testa annebbiata dall’alcol e dalla sua smania egotica, si crede felice. Felice di una felicità assoluta. Piena. Che gli viene da più parti, senza merito alcuno. Invidiato da tutti. Una fidanzata perfetta, una giovane amante segreta e bellissima. Gli applausi, i sorrisi, gli abbracci e le strette di mano. L’emozione che monta. Cos’è che davvero ti fa battere il cuore, Kemal caro? Quel fervore ritrovato, l’euforia leggera e quella gioia profonda. Sarà lo stesso che sta gonfiando il petto a Sibel, raggiante nella sua parte di fidanzata perfetta? Lei, così felice, pregusta quella vita perfetta che nel tempo ha meticolosamente progettato, che sta per realizzarsi appieno con la stessa perfezione con cui, dopo tanti sforzi, aveva adattato ogni perla, ogni piega, ogni fiocco del vestito che indossava su ogni curva del suo splendido corpo.

“Come esprimere la serenità che provai prendendola tra le braccia il rumore implacabile che vagava senza tregua dentro la mia testa e che confondevo con il chiasso della città, era solo l’inquietudine che nasceva dalla sua lontananza. Un silenzio pieno di felicità, vellutato, tenue, profondo, aveva avvolto la mia anima come accade coi bambini che non vogliono smettere di piangere se non tra le braccia di una sola persona.”

UNA.
SOLA.

PERSONA.
Sibel? O Fusun? Delle due, una. L’hai appena detto tu, caro Kemal.

Io, nel frattempo, alzo lo sguardo per controllare le fermate della metro e sento un inaspettato calore pervadere le mie guance. Aggrotto la fronte, avverto un fastidio antico che pare ravvivato dalle parole di Kemal. Che sembrano squarciare un velo, un’antica ferita che ho curato e, al contempo, pungulato fin quasi a lacerarmi del tutto. La lingua batte dove il dente duole, no? È così. Ho battuto e ribattuto sullo stesso punto per così tanto tempo che credo di aver smarrito per un po’ la percezione del resto di me. Ho perso di vista la mia interezza, sacrificandola per un de-limitato particolare su cui si è fissato uno sguardo miope, distratto, egoista.
Io che ancora viaggio e avverto qualcosa che ancora non so definire ma spinge, punge, prude, piccola puntura sottopelle che rilascia un veleno che corrode il mio pensiero e mi riporta esattamente in quel punto, quello più buio e doloroso.

E Kemal che incalza: se due persone si amano come noi, nessuno può intromettersi tra loro, nessuno. Sì sì, certo. Nessuno fuorché fidanzate, mogli, prole, cani gatti e altre amenità – penso io -, mentre nella sala da ballo movimenti lenti cingono fianchi, sfiorano spalle nude e sussurrano pensieri impuri che nessun altro può sentire. Quel dolce veleno, di nuovo. Potente, ineluttabile condanna di chi si ostina a vivere nel sogno. Un sogno così vivo e lucido da sembrare vero.

È così che le avvolge in un mondo ovattato di desideri e sogni irrealizzabili, miraggi tratteggiati sulla pelle calda nei pomeriggi trascorsi insieme al Palazzo di Pietà. Le promesse che penetrano carne e cuore, giorno dopo giorno. L’euforia sconsiderata. La leggerezza dell’animo in tumulto che vive una vertigine continua, ma in una bolla d’aria. Piccola, piccolissima. Che se ti avvicini nemmeno riesci più a distinguerla. Si perde. Quasi non esiste, se non nella tua mente. Che insiste, incessante, a ricamare momenti perfetti che trovano compimento proprio in quella sfinente tensione. Giorno dopo giorno. Tra oggetti dimenticati e scaffali polverosi. Quell’amore carnale consumato su lenzuola azzurre sgualcite.
Tutto quell’amore, Fusun, quell’amore donato e vissuto sulla pelle che diventa quasi orpello, un simulacro da celebrare, più che da vivere.
La bugia più affascinante. Perpetua, a cui votarsi.

Cosa ne sarà di noi?

Eccola, giunge la supplica silente. Disperata eppure così timorosa di rivelarsi, di creare un’interferenza molesta nella narrazione. Silente, Fusun. Perchè tutto possa proseguire, incessante, noncurante. L’amore, la carne, quei baci perfetti che sono fameliche preghiere, recitate ripetute ossessivamente come un rosario che offusca il pensiero e trascina in un luogo lontano – folle – dal sapore dolciastro, denso, metallico.
Un pensiero dolce e assurdo che volteggia nel salone delle feste.
Un piccolo particolare, un dettaglio di ciò che si agita dentro, nel profondo che non trova definizione. Una tortura così deliziosa a cui non fai resistenza, ti abbandoni nella convinzione che porterà alla luce ciò che di più puro e assoluto senti di voler vivere. L’amore, ah l’amour – fou – vaga e vaneggia, beandosi di quell’inconcludente promessa.
E quella bugia seducente si allunga come un’ombra. Imponente ti raggiunge, ti riveste come un abito. Perfetto, nei giorni di festa. Gli altri invece, quelli no. vedi, cara, devi fidarti di me.
Incondizionatamente. Se non lo fai non mi vedrai mai più. Mi pare di sentirle giungere, in lontananza, di nuovo, quelle sapienti, gigantesche cazzate. Cesellate, luccicanti e appuntite con le quali stupire, sorprendere e colpire. sempre e comunque nello stesso punto – dove fa più male – quello che hai suturato più volte con la menzogna e il senso di colpa, quello che poi non cicatrizza mai. Che poi alla fine sei tu, una ferita aperta. Quasi ne ritrovi l’odore. Certo ne percepisci il calore. Il viso in fiamme. Di nuovo. Rabbioso, lo sai. E questo ti fa sobbalzare. Che il corso degli eventi mica lo può cambiare quel sedicente amore. Che l’amore – quello vero – può far male, certo. come un parto.
Poi però ri|nasci, mica muori.