Mi raccomando, tutti vestiti bene

Venerdì sera, ritardo, pioggia, parcheggio occupato, un ombrello striminzito in mano e spalle dritte e strette a sostenere lo spettacolo.

Ho pure sgomitato per esserci, echeccavolo, ne vale la pena. Sembra una cena come altre, venerdì sera in centro, il turno terminato da poco – è già tardi – di corsa a casa per l’ultima incipriata al naso.
Se sembro eterea e rarefatta, sì, così va bene.
Inizio a farneticare a voce alta, in bagno, da sola, e la cosa inizia a preoccuparmi. Oltretutto, penso: tocca pure prendere la macchina, nemmeno potrò affogare i pensieri e stordirli nell’alcol, sia mai. Ho sgomitato per esserci stasera, sorridi suvvia, ne varrà la pena.

Non so molto del programma della serata, qualcuno me l’ha venduto come un evento esclusivo e ho come l’impressione di dover mostrare gratitudine e notevole entusiasmo. Ma poi mi distraggo un secondo e d’istinto rispondo che non posso fare tardi senza aggiungere esplicite motivazioni (urge aggiornamento database).

Si va in scena.

Ciao amici, baci e abbracci, smack.

Si sa che in queste occasioni finto informali bisogna essere brillanti, fichi, con la battuta pronta al momento giusto, il bicchiere in mano e un bel sorriso spiaccicato sulla faccia. Sempre. Che livellare le labbra equivale a beccarsi una nomination e poi si rischia l’eliminazione (o peggio, autoesclusione). Devo divertirmi e soprattutto, cosa più importante, darlo a vedere con il dovuto rispetto. Insomma, è pur sempre un privilegio, no?
Ebbene, se mi impegno sono piuttosto brava: basta un poco di preparazione psicofisica, due passate di mascara, e un rossetto a incorniciare un bel sorriso di circostanza.

Mi raccomando, tutti vestiti bene che c’è da far bella figura. Qui mica si scherza, è prevista selezione all’ingresso. Girati un po’ e fatti vedere, che cos’è che indossi?
Tacco dodici di vernice.
Scala a chiocciola insidiosa (pare la discesa agli inferi). Prova superata.


 
Il nostro gregge, diligente, avanza. Inaspettatamente il calore ci avvolge nella costante penombra della sala.

L’assegnazione dei posti è il momento perfetto per abbozzare le gerarchie nel gruppo. Io: solito posto neutro. Né troppo da una parte, né troppo dall’altra.
Ovviamente, scordarsi che il cellulare prenda qui sotto. Una rapida occhiata all’eterogeneo gruppo di commensali e già si percepisce il disagio nevrotico che ci coglie. Sintomatico.
Ora tocca simulare distacco, e va bene, ecco: sono distaccata. Questo temporaneo totale blackout extra-social-comunicativo non mi tange affatto, signori. Me ne sto qui e aspetto di portare alle labbra quel invitante durello freddo. Ascolto la musica in filodiffusione, e penso che sia davvero bella. Anni quaranta, mi pare. In una vita precedente molto prossima devo aver vissuto momenti piuttosto felici in quegli anni; ne porto dentro una viscerale nostalgia. E in effetti, tolto questo iniziale accenno di disagio nel calarmi nella parte ignorando la vocina stridula che come un mantra in queste solenni occasioni mi ripete: che diavolo ci fai, tu, qui? non si sta male. Vuoi star zitta ora, per favore?

In sottofondo, Rita Hayworth è Gilda e canta, e scalda e mi fa sentire bene.

Eppure una risata mi disturba, e proviene dall’ala ovest del banchetto. Mi concentro sul tortino di ricotta che ancora s’attarda nel piatto, ma quel rumore si intrufola e si incastra nel mio orecchio come questi semini di chia che scricchiolano tra i denti. Decido di alzare distrattamente la testa e voltarla poco, come fosse puro caso. Invece no, è proprio fastidio, fastidio che cresce quando percepisco tutte insieme le onde elettromagnetiche dei cellulari che sventolano luminosi e invadenti. Ci siamo, è il momento del social asociale. Sfilano in rassegna decine di immagini e video, battute omofobiche mixate a incursioni razziste – da sganasciarsi, eh?! – uno più idiota dell’altro. Cinquanta sfumature di verde, l’ultimo libro letto? Cheppalle il momento “social”, e dire che da tempo immemore ho preso armi e bagagli lasciando quelle stanze vuote, piene di gente-che-sta-bene. Sorrido giusto per darmi un tono, per fare ginnastica facciale, per combattere l’avanzata delle rughe.
La gamba destra prende posizione, e traballa nervosa sotto il tavolo. Siamo alla top ten. La serie del povero Bocelli è il colpo di grazia. E’ incredibile quanto possa suscitare interesse, divertimento, senso di appartenenza, collante sociale low cost, questo agglomerato di ilare ignoranza.

Bip-bip: cattiveria, ecco, s’è palesata. Che stavo soffocando, a forza di trattenere il fiato.

Mi alzo. Bello pure il bagno. Quasi quasi resto ancora un po’.

Lo stige, più sotto, mi attende.
Riprendo posto al mio posto, assegnato per merito o clemenza, dipende dai punti di vista. Ci vuole qualche secondo per sintonizzare nuovamente la frequenza, le casse appena fuori del mio cervello non riescono a tararsi correttamente. Qualcuno mi strizza l’occhio e sorride. Che sia per pietà, cogliendo il mio personale minuto di smarrimento tecnico?
Qui sotto, nel frattempo, dev’essere sceso inaspettatamente Mosè: le acque del fiume infernale si sono divise. Progetto aerospaziali, architetture danesi, paesaggi britannici, scambi culturali multietnici…
Sto in mezzo, pendo dalla parte di destra, guardando la parete dei vini.
Mi aggrappo a questo salvagente, che il giubbotto, con quei colori, mal si abbina all’abito.

Spostati più a destra, ancora un po’, un po’, ancora sì, così.
Io sospetto di essere alla destra della cornice della scena, ancora un passo e diverrò parete a cui appendere un chiodo di sostegno.
Nei miei contorni non c’è spazio nemmeno per un tag.
Sfuggo al selfie. Scampato pericolo, sono salva.

Grazie tanto, amici, serata stupenda.

La scena finisce così com’è cominciata.

Baci e abbracci, smack.

Sarah Haney life in plastic