Il Cerchio perfetto (la stanza di Catherine)

Sul lato sinistro della sala, appena qualche gradino sopra, inchiodato a una vecchia saracinesca, uno sguardo sornione scruta di traverso e accompagna una smorfia da moccioso, inconsapevole invito d’ingresso. Sembra messo lì per caso Sascha, fermato di colpo, tra uno schiamazzo e una corsa rapida in strada, con quella ruvida giacca abbondante scivolata sulle spalle piccole, il gilet ben allacciato e le braccia lungo i fianchi. Che stia trattenendo il fiato come sto facendo adesso, guardandolo? Quella piega accennata della bocca segue lo sguardo che invece sfugge la direzione della freccia. 

LOOK

E sia. Si guarda, si deve guardare, ci sono facce ovunque che chiamano e richiamano altre espressioni, altre immagini che rompono la continuità delle altezze, di quel candore sfacciato che quasi disturba.

Mi stringo nelle spalle e sento quasi le ossa che scricchiolano. Rimango impalata lì, immersa in questo naturale silenzio della stanza bianca. 

La stanza bianca di Catherine Bailey

Bianca a tal punto che vien da socchiudere gli occhi, e li socchiudo, perché la parete che ho davanti mi obbliga a farlo. Tutti quegli scatti, rigorosi, fitti, alti, bassi, luccicanti e così stretti l’uno all’altro come dita intrecciate in cui si fatica a infilarsi.
Fatemi spazio che voglio entrare, amalgamarmi, riversarmi come un’arteria in quel corpo fatto di tanti corpi e tanti sguardi e momenti che incalzano.
Quanto è bella, Catherine.
Bella con questi occhi grandi che penetrano l’obiettivo e inchiodano a quella parete quasi fosse una punizione a cui disperatamente si tenta di sfuggire.
Impenetrabile, Catherine.
Lasciati guardare, lasciati toccare così, algida e nera, gli occhi cerchiati, fissi altrove, la pelle diafana che si fa orlo da percorrere, uno scatto dopo l’altro, perfetto artifizio che diviene maschera gioiello da indossare a comando e carne nuda e viva che genera altra vita.
Quant’è bella, e quanto è bello e crudele questo sguardo che ti scruta, ti scopre, ti esalta, ti cattura, Catherine, e concede beffardo una sbirciata veloce a noi qui, raccolti in questa muta stanza bianca.
Quello sguardo che indaga complice e davvero conosce quella bellezza, la divora, tutta quanta, tutta intera.

Un passo indietro e poi ancora uno avanti.
E’ un dedalo nero e cupo che non dà tregua, non è previsto alcuno sconto.
Un passo indietro, inchino in punta di piedi a quel tributo familiare così denso, crudo e saturo. Un passo avanti, silenzioso respiro trattenuto di fronte alla forza di quel legame così prezioso che si mostra brutalmente speciale, da preservare dentro uno scrigno, caleidoscopio proiettato su di un’enorme parete immacolata che non concede nessun appiglio, e su cui, invece, desolatamente tento di scivolare.
Che cos’è che mi turba? Cos’è questa sensazione che m’invade. Accumulo dolcezza pesante, triste felicità densa: mi lascio sopraffare, senza chiedermi da dove venga, quale il motivo di tanto sconcerto. Temo di aver trascurato la cosa più importante, percorrendo lenta questa stanza.
Accanto a me un piccolo gruppetto di ragazze che si fanno spazio, avanzano e scattano qualche foto alle immagini più patinate. Le vedo attraverso lo schermo del telefono.
Ferme così, vorrei immortalare il loro sguardo, per distogliere il mio, per sentirmi meno sola in quella stanza, per bearmi di quella leggerezza che non mi appartiene. Ferme così, mentre chino la testa di lato per ritrovare il dolore urlato tra le lenzuola di un letto in bianco e nero, e quella vita che appena s’intravede e ruba violentemente la scena. Quant’è bella Catherine, altera e mutevole, con quel suo sguardo che non teme più nulla, consapevole della vicinanza dello sguardo altrui, noncurante dell’invasione, sicura entro il confine del proprio sé.
Abbraccia con eleganza la morte e ci si fa bella, non ammicca, non scherza, si concede appena senza mai perdersi. La dolcezza disarmante di Paloma che tiene Sascha tra le braccia, tenero da scoprire e proteggere. Lo sguardo vaga senza più continuità, a singhiozzo esplora accenni, piccoli spazi che l’artista concede geloso in quel intricato e intimo vortice emotivo.

E’ tutto insieme, tutto così diverso, apparentemente disarmonico.
Un passo indietro, ecco quell’ellissi dove tutto torna, oltre l’immagine qualcosa di più grande e straordinario, struggente e appassionato filo rosso che ha legato trent’anni di vita, carriera, arte, passione, amore.

Tra poco tutto questo finirà, il rumore della città coprirà tutto, ma ancora questa cosa sale a trattenermi e ancora mi sommerge: sento il sapore del sangue e dell’ambrosia, lacerante crepa della mia realtà.
Lascio la sala, lascio Catherine, il sorriso del compimento e la sua meravigliosa interezza che mi spezza il respiro.

Il cerchio perfetto.

 

La stanza di Catherine Bailey (Stardust)